Raccolta di interviste al maestro Felice Tagliaferri, docente e scultore non vedente.
- Il maestro Felice Chiesa dell'Arte è il fondatore della prima scuola di arti plastiche diretta da un artista non vedente. Il maestro collabora con il Museo tattile statale Omero, il museo di arte contemporanea a Roma, i Musei Vaticani, l'Accademia di Brera, il museo Guggenheim a Venezia, dove tiene corsi e laboratori anche per bambini. Ricordiamo la sua partecipazione al TEDEX di Bologna, insieme all'organizzazione e gestione del primo simposio di scultura del marmo per persone non vedenti in cooperazione con il Comune di Carrara. I destinatari del suo metodo di insegnamento sono anche Scuole e Istituti, insegnanti di sostegno, terapisti, per far sperimentare la condizione della disabilità e grazie ad una mano esperta e sapiente provare a capire che - come ricorda il maestro Felice Tagliaferri - "non esistono abili e disabili, tutti hanno le loro disabilità e tutti possono trovare le proprie abilità". Questo è, quindi, anche il momento per riflettere su idee per nuove proposte didattiche. Il maestro Felice Tagliaferri tiene corsi di formazione per educatori, insegnanti, artisti, artigiani, terapisti, studenti -
Ci racconta la sua storia?
“Io sono foggiano d’origine e bolognese d’adozione. Ho perso la vista a 14 anni e per due anni non sono voluto uscire di casa, poi però gli amici mi hanno riportato a vivere. Qualche anno dopo ho risposto ad un annuncio dove un docente d’arte, Nicola Zamboni, cercava ragazzi non vedenti per appurare se la vista fosse necessaria al fine della creazione artistica. Quando ebbe la sua risposta, io chiesi di poter proseguire quel percorso artistico perché avevo scoperto di amare la scultura. In seguito sono stato uno dei protagonisti del libro di Candido Cannavò: “E li chiamano disabili” pubblicato nel 2005, rendendomi popolare. Sono stato contattato dal Museo Tattile Statale Omero di Ancona, dove sono esposte permanentemente alcune mie opere, e con cui collaboro assiduamente essendo docente di arti plastiche a Sala Bolognese nella Chiesa dell’Arte. Insegno l’arte perché per me è importante dare ad altri la stessa opportunità che ho ricevuto io. In questi anni ho partecipato a molti convegni ed ho tenuto tantissimi laboratori con ragazzi non vedenti e con disabilità. Sono andato nelle scuole ed ho riscontrato quanto sia liberatorio creare. Io ritengo che ciò che è importante sia motivare le persone ad ascoltarti, a provare. Siamo semplici e uguali in tutto il mondo si tratta di creare una comunicazione cardiaca: da cuore a cuore, anche scambiandosi le coccole sul pavimento, a prescindere da tutto. Ho riscontrato che spesso le persone che hanno dei problemi quando ricevono la possibilità di esprimersi sono i più bravi”.
La vicenda della nascita della sua opera Cristo RiVelato evidenzia la sua posizione di protesta verso i musei italiani. Alcuni stanno correndo ai ripari creando percorsi tattili, cosa ne pensa?
“Si successe nel 2008 quando, nella basilica di San Severo a Napoli mi fu vietato di poter toccare il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, realizzato nel 1753. Quella circostanza ha provocato la volontà di creare un mio Cristo velato. Volevo che la mia scultura si potesse toccare così da ovviare l’impossibilità di toccare l’originale, perché precludere il tocco per i non vedenti preclude la conoscenza. La mia opera ha assunto così un doppio significato: velato per la seconda volta e svelato per i non vedenti, ed ha dimostrato, in questi anni in cui è stato toccato in numerose esposizioni, che un blocco di pietra non può rovinarsi a causa dello sfioramento.
Ritengo che i percorsi tattili rappresentino un piccolo passo verso una società di diritto per tutti resta però un veto alla cultura per le persone con disabilità visive: di fatto i non vedenti possono conoscere solo ciò che i curatori vogliono che conoscano. Si tratta di un filtro, una discriminazione che non è accettabile. Io anche se non vedente dovrei poter toccare tutto per avere le stesse opportunità degli altri. Sto lottando, con il Museo Tattile Omero, perché questo possa avvenire”.
Nel 2014 è stato protagonista del film di Silvio Soldini e Giorgio Guarini: “Un albero indiano”, un esperienza nuova, che impressioni le ha lasciato?
” Si sono andato in India, mi è piaciuta l’umanità, l’umiltà e gentilezza di questa terra, viverci però è complicato. Il film è un progetto di CBM Italia Onlus, organizzazione non governativa internazionale impegnata nella lotta alle forme evitabili di cecità e disabilità nei Paesi del sud del mondo. Con questo film CBM ha voluto raccontare l’altra faccia della disabilità affidando il messaggio alla mia voce in quanto sono loro ambasciatore da diversi anni. Lì ho avviato un laboratorio di lavorazione della creta, nella Bethany School, scuola inclusiva sostenuta da CBM dove bambini con disabilità studiano con in classi miste con normodotati. Ora il laboratorio è divenuto permanente per tutti gli studenti. Per me è stata un’esperienza bellissima, lì potevo comunicare con tutti semplicemente attraverso l’arte, senza conoscere la loro lingua e si è creato un rapporto bellissimo che si avverte subito nel film”.
Dall'articolo Intervista a Felice Tagliaferri: “L’arte mi ha cambiato la vita”
Lei a quel punto era cieco da oltre dieci anni. Come ha fatto a confrontarsi con un'attività che richiede un così intimo rapporto con l'immagine?
All'inizio fu un lavoro introspettivo. Mi tuffai nella memoria, per scovare e ricostruire tutte quelle immagini che avevo visto nei primi anni della mia vita. La Nonna del Sud, per esempio, rappresenta una donna che avevo visto a Foggia, da bambino. Nei primi anni ho scolpito quasi ogni immagine che mi era rimasta impressa durante l'infanzia. A un certo punto, però, quel repertorio ha iniziato a esaurirsi, e c'è stato bisogno di un cambiamento. Qualche anno fa, un centro carni mi chiese di raffigurare una mucca, e io dovetti arrendermi al fatto di non ricordare assolutamente come fosse fatta. Il problema più grande sono i dettagli: anche i vedenti tendono a dimenticarli, ma loro una mucca possono rivederla in qualsiasi momento. Io invece dovetti andarmene in una stalla, per poterne toccare una. E ci rimasi per due giorni, prima di riuscire a ricostruirla dentro di me.
È così che è iniziato il suo percorso con l'arte tattile?
Più o meno sì, perché un artista ha bisogno di rapportarsi anche alle opere altrui, oltre che agli oggetti che vorrebbe raffigurare. Per un cieco, l'unica possibilità è rappresentata dal tatto, ma la maggior parte dei musei sono totalmente insensibili a questa esigenza. L'arte dovrebbe essere patrimonio dell'umanità, ma di fatto tre milioni di ciechi si ritrovano praticamente esclusi dalla fruizione artistica.
La sua opera più celebre è proprio il Cristo rivelato, una reinterpretazione del Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, che lei iniziò a scolpire dopo che alla cappella Sansevero di Napoli le fu impedito di toccare l'originale. Quella scultura nasce come una provocazione?
Non esattamente. Lo scopo era stimolare una riflessione genuina rispetto al rapporto che le persone cieche hanno con l'arte. La maggior parte dei musei motiva il divieto alla fruizione tattile con la necessità di preservare le opere dall'usura, ma in realtà si tratta spesso di un argomento pretestuoso. Il Cristo che ho realizzato può essere toccato da chiunque, e in questo modo ho voluto dimostrare che un blocco di marmo non può rovinarsi solo a causa dello sfioramento, specialmente da parte di dita esperte. Certo, ci sono opere che presentano particolari necessità di conservazione, ma anche in quei casi si potrebbe far molto, per esempio realizzando copie degli originali. Invece le cose vengono lasciate semplicemente come sono.
Come si riflette tutto questo sul panorama artistico?
Di certo non è positivo. In Italia esiste una produzione da parte dei ciechi, ma è ancora molto limitata. Di scultori ce ne sono quattro o cinque, alcuni molto bravi, ma non riescono a vivere della loro arte. Tutto questo non fa che rafforzare stereotipi negativi sui limiti legati alla disabilità, quando di fatto è vero il contrario: la mia storia e quelle di tanti altri dimostrano che, se c'è una forte volontà, tutto è possibile. Anche a livello di musei siamo ancora al grado zero. Se si escludono l'Anteros di Bologna e il museo tattile Omero di Ancona, non c'è praticamente nulla. Dal canto mio, col tempo ho cercato di rendere le mie opere sempre più ricche dal punto di vista tattile: nelle teste di cavallo che ho scolpito, ad esempio, la consistenza dei dettagli è assolutamente realistica. Toccandole, si ha la sensazione di avere tra le mani una criniera, delle orecchie, un muso.
È per questo che ha iniziato a insegnare ai non vedenti?
Questo non è esatto. Con la mia scuola, la Chiesa dell'arte (Chiesadellarte.it), io insegno la scultura a delle persone: tra loro ci sono ciechi, come disabili motori e normodotati. Ho lavorato anche con ragazzi tetraplegici, che non potevano muovere né braccia né gambe: per scolpire usano il naso, la bocca, a dimostrazione che nulla è impossibile se si ha una forte motivazione.
Recentemente, Silvio Soldini ha realizzato il documentario Un albero indiano sulla sua esperienza come insegnante in una scuola per ragazzi disabili e svantaggiati a Shilong, in India. Com'è finito a lavorare lì?
L'idea fu della ong Cbm Italia onlus. A una mia mostra milanese incontrai Massimo Maggio, il direttore: fu lui a chiedermi di andare lì. Quei ragazzi non avevano mai avuto il benché minimo contatto con l'arte, e Maggio era genuinamente convinto che potessimo cambiare loro la vita. Oggi so che aveva ragione, perché ci siamo preoccupati anche di formare degli insegnanti, che a loro volta saranno in grado di formarne altri. In questo modo, sappiamo che per i prossimi 50 anni in quella scuola ci sarà qualcuno che insegnerà l'arte. Soldini mi aveva già voluto in Per altri occhi, il suo primo documentario sui ciechi: quando ha saputo di questa iniziativa è stato entusiasta, e ha deciso di farne un altro film.
Cosa ricorda di quel viaggio?
È stata un'esperienza molto intensa. In India tutto è dopato, amplificato: suoni, odori, sensazioni. Per un cieco è qualcosa di incredibile. (Antonio Storto)
Dall'articolo L'arte nelle mani. A colloquio con Felice Tagliaferri
D: Felice, facendo corsi in giro per il mondo e interfacciandoti con studenti di ogni tipo, come hai specificato, come cambia, se cambia, la tua didattica?
C’è qualcosa di più difficile da insegnare, o qualcosa di più difficile da apprendere in base al target?
FT: Il mio metodo d’insegnamento è uguale per tutti e sinceramente non ho rilevato nessun particolare aspetto che risultasse in qualche modo più difficile.
Infatti, comunico con le persone con la bocca, il sorriso e il corpo.
Felice Tagliaferri, La forza dell’amore, marmo, 2014 – Ph by Elena Savino
Ciò consente di creare un legame empatico e molto tattile.
La comunicazione corporea è importantissima, perché il corpo umano parla e non sa mentire.
Ne consegue che il contatto fisico sia indispensabile e innato nell’essere umano.
Ad esempio, nel 2014, ho partecipato a un progetto di laboratorio artistico in India. Non c’era alcuna possibilità di comunicare in lingua, eppure ci siamo capiti benissimo e molto divertiti.
Ecco, credo che sia molto significativo per far comprendere quanto sia potente il linguaggio corporeo.
D: Felice, tu sei incredibilmente poliedrico e utilizzi tantissimi materiali per la tua arte: creta, legno, pietra, marmo; ma qual è quello che prediligi?
FT: Nell’insegnamento, sicuramente, materiali duttili, come la creta, ad esempio.
Al contrario, personalmente, prediligo il marmo, in assoluto. È un materiale che significa impegno, fatica, sudore. Devi metterti lì, con tutto il corpo e lavorare.
Inoltre, si riescono a rendere particolari dettagliati. In più, il lavoro, una volta terminato, è definitivamente compiuto.
Al contrario, materiali come la creta, ad esempio, obbligano a un secondo passaggio, che è la cottura.
D: Felice, potresti raccontarci come e quando è nato il tuo desiderio d’insegnare?
FT: Ho incontrato l’arte tramite uno scultore bolognese. Ho trovato una tale gioia nell’arte che ho cominciato a desiderare di far provare al mondo il piacere di creare.
Felice Tagliaferri, Specchio, particolare, marmo, 2012 – Ph by Elena Savino
Così, è cominciato tutto. Ho iniziato con piccoli laboratori di scultura.
Oggi, tengo corsi e laboratori d’arte anche nelle università straniere.
I miei corsi sono rivolti a tutti: a bambini, ragazzi, anziani, vedenti e non-vedenti, a studenti, insegnanti, artisti, ma anche a chi, semplicemente, desidera approcciare e conoscere il mondo dell’arte.
Infatti, per me, l’arte è universale e deve essere libera e accessibile a tutti.
D: “Dare forma ai sogni” è il tuo motto, che ci hai spiegato ampiamente in una precedente intervista; ma è anche il tuo metodo d’insegnamento.
La tua è un’arte che nasce dall’anima e dalla mente per farsi materica.
Potresti per favore spiegarci come applichi tutto questo alla didattica?
FT: Quello che, innanzi tutto, tiro fuori ai miei studenti è la passione.
Infatti, è quella il motore che spinge verso la creatività, nell’arte, soprattutto. La passione porta ad affrontare la fatica, il duro lavoro, il sacrificio, che culminano nel profondo piacere di vedere materialmente realizzato ciò che avevi in testa e nel cuore.
Ph by Elena Savino
Per ottenere ciò, uso un approccio molto pratico.
Lo scopo è tirare fuori agli studenti la loro interiorità, perché è l’umanità che conta.
In altri termini, la prima cosa che m’interessa è la forza delle emozioni e della comunicazione corporea. L’energia che si sviluppa tra corpi, tra esseri umani.
Poi, su questa base, insegno la scultura.
Per me, la tattilità è tutto, ma è anche un potente mezzo di comunicazione per chiunque.
Quindi, porto a sviluppare, nel caso di studenti vedenti, o reinterpretare, nel caso di studenti non-vedenti, il senso del tatto, perché esso divenga un potente mezzo d’esplorazione, un aiuto all’apprendimento, un mezzo di comunicazione e relazione e poi, naturalmente, il mezzo della creazione artistica, che, ad ogni modo, è comunicazione essa stessa.
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✅Perché il il laboratorio LA CRETA AL BUIO?
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