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Immagine del redattoreFrancesco Bianchi

Con l'augurio che qualcosa possa cambiare...

IL NOSTRO EGO SI È FATTO COSÌ GRANDE CHE NEGLI ALTRI VEDIAMO SOLO QUELLO CHE GIÀ SAPPIAMO

"Mi chiedo cosa sia cosa ci abbia esauriti e allontanati, quando in realtà non ci sono mai state così tante occasioni di parlarsi; cos’abbia occupato questo spazio riducendo le nostre possibilità esistenziali. E la risposta – prima ancora della permacrisis, del capitalismo, della guerra, dell’inflazione, della competitività e dell’ambizione – è: noi stessi. La nostra identità ha riempito lo spazio che una volta era dedicato all’Altro, a ciò che ci era sconosciuto, e quindi a ciò che potevamo scoprire. “C’est ce que je porte d’inconnu à moi-même qui me fait moi”, scriveva Paul Valéry in Monsieur Teste: è ciò che non conosco del mondo a cui mi avvicino e che porto verso di me, che mi fa diventare me stesso. E Martin Heidegger dopo Essere e tempo, suggerendo di abitare il mondo poeticamente, e quindi di abitare il nulla esistenziale attraverso il linguaggio, scriveva che fare esperienza di qualcosa significa “che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge, e trasforma”. Ma se tutto è manifesto e apparentemente noto io resto sempre uguale a me stesso, e l’unico movimento esistenziale che mi resta da fare è espandermi, non potendo cambiare, fagocito tutto.

Gli strumenti digitali che abbiamo iniziato a usare e che oggi danno forma alla nostra vita hanno cambiato il nostro modo di agire, di immaginarci e di percepirci, espandendo il nostro ego e sottraendoci tempo – non “prezioso” in assoluto, ma prezioso per coltivare la differenza, e dar vita allo spazio della relazione. Abbiamo ceduto, giorno dopo giorno, mese dopo mese, alla convinzione di esistere. Ovvero di essere qualcuno a prescindere, di essere corpi che contengono un’anima che gli è stata iniettata dentro a priori, ovvero prima di incontrare l’Altro e di farne esperienza. Idea assurda, che però l’umano sembrerebbe non riuscirsi a scrollare di dosso, proprio perché estremamente conservativa e rassicurante: la credenza di essere qualcuno, di essere proprio così come si è, nonostante tutto, nonostante il mondo. Nonostante secoli di riflessione, d’altronde, siamo ancora convinti che esista effettivamente un nostro presunto “vero sé”, ed è proprio da questa idea che origina la patologia che ora la società – insieme a tutti gli individui che la compongono – sembra vivere in fase acuta... I meccanismi basilari dei social – mi piace, non mi piace, la reazione istantanea, l’opinionismo, la ri-condivisione – hanno uniformato il nostro modo di agire, di pensare e di essere, molto più di quanto siamo disposti a riconoscere. Sottraendo al pensiero la sua qualità di evento. Ammettiamo l’esistenza soltanto di ciò che è come noi, che ci è simile, altrimenti lo escludiamo, perché portatore di dissonanza, alterità e quindi – nel mondo di oggi soprattutto – di conflitto e di dolore. L’altro può essere accettato se e solo se uguale a noi, perde quindi la forza attrattiva del mistero, capace di farci perdere l’equilibrio, sbilanciarci, mutarci, spostarci dal nostro asse. L’altro, infatti, ci porta gli spazi cognitivi che non siamo in grado di scorgere, di vivere e di abitare.

Oggi più che mai desideriamo l’uguale, per confermare la nostra visione e la nostra identità. Ma così, la pulsione erotica che ci fa vivere, si riduce al narcisismo, amiamo negli altri ciò che vediamo – o crediamo di vedere – riflesso in loro di noi stessi. Come scrive Byung Chul Han nel suo libro divulgativo L’espulsione dell’altro, in cui raccoglie i contribuiti di numerosi pensatori, tra cui lo stesso Heidegger: “A causa della sua positività, la violenza dell’Uguale è invisibile. La proliferazione dell’Uguale si presenta come crescita. Ma, da un certo punto in poi, la produzione non è piú produttiva bensí distruttiva, l’informazione non è piú informativa bensí deformativa, la comunicazione non è piú comunicativa bensí cumulativa. […] All’Uguale invece manca sempre la controparte dialettica, che lo delimiterebbe dandogli forma. […] L’Uguale invece è informe. Poiché gli manca la tensione dialettica, ne deriva una vicinanza indifferente, una massa informe e indifferenziata. […] Si prende atto di tutto senza mai giungere a una conoscenza. Si ammassano informazioni e dati senza mai giungere a un sapere. Si bramano esperienze vissute ed emozioni eccitanti in cui però si resta sempre uguali”. CONTINUA AL LINK

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